Abbiamo impiegato qualche migliaio di anni per imparare a distillare e poi un altro millennio per fare uscire acquaviti e liquori dalle botteghe dei cerusici e portarli sulla tavola e nei salotti, ma ora paiono colpiti da un male inesorabile che ne sta deprimendo i consumi.
Se difficile è stimare le quantità vendute, soprattutto per quanto riguarda l’aliquota che riguarda il settore horeca, probabilmente il valore delle vendite in Italia non si allontana di molto dal miliardo e mezzo di euro. Detto così parrebbe comunque una bella cifra, ma il lato preoccupante riguarda i cali. Solo nel 2018 gli spirits hanno lasciato sul terreno un 2% in valore che sale al 3% se considerato in volumi, il che significa essere senza argomentazioni e quindi non riuscire più di tanto a compensare la riduzione della quantità elevando il prezzo.
A sentire gli operatori la colpa viene data alla demonizzazione dell’alcol: si beve meno, neppure i ristoratori offrono più il limoncello a fine pasto perché ne potrebbero soffrire i punti sulla patente di guida. C’è indiscutibilmente del vero, ma alla base manca l’attraenza dell’atto di consumo e questa dipende dall’assenza di una narrazione affascinante, di una promozione intelligente, di forze vendita che credano in quello che propongono senza sentirsi in colpa.
Le cifre non soddisfano infatti neppure il motto “bere meno, ma meglio”.
A dimostrazione della tesi che stiamo esprimendo, troviamo in controtendenza gin, tequila e amari. Per i primi due ci sono tre elementi che giocano a loro favore: il fascino dell’esotico, il bere miscelato e, almeno per il gin, un revival creato dall’artigianalità. Un caso a sé riguarda gli amari che poco hanno di esotico e poco entrano nel bere miscelato, ma per i quali è stata svolto un sapiente recupero selettivo della tradizione. In poche parole la narrazione si è sviluppata intorno all’ingegno made in Italy innovandoli nelle modalità di consumo, per esempio mediante la proposta di consumarli ghiacciati. E, considerato che l’umanità non sa rinunciare al buono, l’assopimento della forza alcolica mediante la temperatura e l’aumento della progressione nel rilascio degli aromi, unitamente al rito che l’operazione comporta, hanno vivacizzato un prodotto da molti dato per morto.
Ma se c’è un prodotto che ha necessità di medici intorno al capezzale, questo è la grappa, la nostra acquavite di bandiera. Nonostante sia tra gli spirits quello che ha goduto negli ultimi lustri della maggiore innovazione di gusto e di un fantastico miglioramento degli opifici con relativo adattamento all’accoglienza, nel 2018 ha ancora registrato un calo che si aggira intorno al 4% in valore e supera il 5% in volume.
Davvero non ci piace più?
È un’ipotesi che scartiamo a priori, perché dai numerosi test che eseguiamo continuamente troviamo grappe sempre migliori, acquaviti che un tempo non osavamo neppure immaginare. Di vecchio nella grappa c’è solo il modo con il quale viene raccontata. Se le tecniche impiegate non hanno nulla di nuovo rispetto a quelle in uso negli anni Ottanta, persino il volume della comunicazione si è ridotto. Non solo si fanno meno corsi di assaggio (nello stesso stile e forse di minor tono) e meno eventi, ma non si registra innovazione nella comunicazione. Pare che siano gli stessi produttori a non crederci: da una parte rincorrono l’epopea del gin (già in fase calante), dall’altra ogni tanto fanno un tentativo per inserire la grappa nel bere miscelato. E’ una guerra persa in partenza, sia per le caratteristiche sensoriali del prodotto che rendono difficili matrimoni d’amore, sia perché si trovano spirits più adatti che costano meno, sia perché manca una cultura sulla miscelazione della grappa. E la storia lo dimostra, perché nell’ultimo mezzo secolo questa strada è stata più volte ripresa senza mai sortire successi degni di nota.
Si può imparare dal passato? Le grandi tappe della valorizzazione della grappa sono state: il recupero delle origini con il vitigno e l’innovazione delle confezioni (anni Settanta), la nascita degli assaggiatori di grappa (anni Ottanta), l’elevazione in legno (anni Novanta). Messaggi forti che sono stati accompagnati da un reale miglioramento sensoriale e dalla nascita di una nuova scenografia (distillerie che diventano veri templi, alambicchi tirati a lucido ecc.), dall’aggregazione dei produttori (negli anni Novanta vengono fondati o rifondati l’Istituto Grappa Piemonte, l’Istituto Grappa Lombarda, l’Istituto Grappa Veneta e, infine, l’Istituto Nazionale Grappa) e dall’acquisizione dell’Indicazione Geografica a livello comunitario.
Una storia di valore che i nostri grappaioli paiono avere dimenticato tra liti di campanili e disorientamenti dovuti ai cali nelle vendite.
Ecco, se si vuole imparare qualcosa dal passato occorre recuperare la solidarietà di settore, imparare a lavorare per il bene comune nella convinzione che se la torta cresce cresce la fetta di ognuno. Il bene collettivo risponde al bene individuale. Contemporaneamente occorre riappropriarsi dell’orgoglio di essere produttori di grappa e trasmetterlo alla filiera, alle forze vendita in primis. L’avvento della cultura digitale, dei social e del web in generale sta producendo una nuova esigenza di relazioni personali, vere, autentiche. Questo coinvolge la relazione tra operatori dell’horeca (che in passato ha rappresentato un grande strumento per la valorizzazione della grappa) e i venditori che visitano ristoranti, bar e hotel.
E cosa c’è di meglio di un grappino per generare relazioni tra le persone? Forse occorre proporla anche agli stessi grappaioli.
Tratto da L’Assaggio 65 – Primavera 2019
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